Articolo di Marta Mazzolari tratto da Orobie – Febbraio 2012

 

Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e vi dirà la verità.

Forse Oscar Wilde pensava alla falsità dei ruoli e alle ipocrisie tipiche dell’epoca vittoriana quando l’ha detto. Ma per assurdo con queste poche parole è riuscito a cogliere l’essenza stessa del carnevale. Una delle feste più antiche del mondo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi tra feste dionisiache greche, Saturnali latini, fino a carri allegorici medievali. Ciò che nei secoli è tuttavia rimasto costante è il senso della vertigine: la libertà totale che diventa euforia, accompagnata da un lieve senso di disorientamento per la rottura di convenzioni sociali, obblighi, gerarchie. Il carnevale spazza via ogni cosa sovverte l’ordinario e rivela ciò che fino a quel momento era rimasto nascosto. E’ una festa per certi versi inquietante, solleva i coperchi senza sapere cosa ne uscirà, perché nessuno in fondo può saperlo, riguarda ciò che di più profondo è dentro di noi. Certo, oggi si fa fatica a ritrovare l’incanto di una volta quando questa ricorrenza prima ancora che una festa era un rituale, una discesa negli abissi per poi risalire, un catarsi collettiva. Ma a Schignano, in Val d’Intelvi, il tempo, come si dice in questi casi, sembra essersi fermato. Qui si celebra ogni anno uno dei carnevali più antichi e rinomati, sicuramente del Lago di Como e probabilmente anche dell’intera Lombardia. Non è la solita coreografia: niente carri mascherati nemmeno il suono delle trombette di plastica a sferzare l’aria, tutto è come una volta. Gli unici colori a ravvivare il livore dell’inverno sono quelli dei vestiti dei “bèi” , riempiti di foglie di faggio e cuciti come una volta: tocca alle donne, lo stesso giorno, all’alba, confezionarli direttamente addosso a figli e mariti, con quella solerzia tipica della gente di montagna, abituata a una vita dura, che non regala niente ma in cui tutto deve essere custodito e guadagnato. Conserva tutte le caratteristiche dei carnevali tradizionali e forse proprio per questo per alcuni è più difficile da capire : la vitalità, il ribaltamento dei ruoli, il tema dell’abbondanza o dell’erotismo. Non si può restare semplici spettatori. Schignano è una festa che travolge. Lo schema è fisso, la dicotomia è ferrea ma non deve pensare che non lascia spazio alla fantasia o all’improvvisazione. E’ come nel teatro di una volta, quando da un canovaccio appena abbozzato gli artisti costruivano un universo che si rinnovava di volta in volta. Le maschere di Schignano non sono cento, sono solo due: i “bèi” e i “brùt” . E chi pensa che sia limitante dovrebbe venire a vederli: dietro due tipologie fisse è un tripudio di infinite potenzialità espressive. A cominciare proprio dalle maschere, ancora artigianali, fatte a mano dai mascherai del paese col legno di noce locale. Un lavoro di mesi per un risultato unico custodito come un vero e proprio tesoro. Trovarsele di fronte è un’emozione enorme, come tenere in mano un pezzo di storia: alcune sono antichissime, tramandate di padre in figlio, di generazione in generazione all’interno della propria famiglia. Gli schignanesi le riconoscono subito, come volti di persone note: “maschera del Tizi”, la “maschera del Cilìn”. Tanto le maschere dei “belli” sono chiare, algide, ironiche quanto quelle dei “brutti” sono scure, volgari, deformi. A Schignano la manifestazione del carnevale si snoda secondo un modulo teatrale arcaico, che mette in scena la rivalità tra due anime antiche. Il “bello”  è emblema di sfarzo, imponenza, splendore. Nel suo costume tutto è ostentazione, a cominciare dalla pancia enorme, decorata con foulard, centrini ricamati, ori, collane, gioielli e tutto quando luccica. Il suo cappello è straripante di fiori, nastri, penne variopinte. E’ un personaggio straordinariamente ricco, superbo, dominate persino nel portamento. Il “brutto” invece ha la pancia cadente, è sporco, deforme, lacero. Porta con se oggetti strani e impensabili, espressione della vita povera di montagna: sedie di paglia rotte, travi malconcia, pelli di pecora, tasso o coniglio. E’ un personaggio inquietante e per certi versi pauroso; il Brutto è sgraziato, primitivo, improvvisato e misero quanto il Bello è elegante raffinato, curato e futile; è il poveraccio, la persona sottomessa. Arrivando a Schignano li si sente fin da lontano, dove rimbomba l’eco delle loro campane, i preziosissimi “brùnz” cesellati a mano, assieme ai “ciòch” i volgari campanacci del brùt. Questi suoni si rincorrono per le strade e rappresentano l’unica voce del carnevale schignanese, che è essenzialmente muto. Come il teatro arcaico, fatto di mimica, gestualità espressiva e dirompente. Sono proprio le campane delle maschere, come in ogni rituale che si rispetti, che danno il via alla festa. Riecheggiano e si sovrappongono quando è ancora buio, prima che il sole sorga, tra i vicoli stretti e le pareti di pietra delle case di montagna. Un richiamo rituale che risveglia e coinvolge il paese, scandendo in due giorni il ritmo di un anno. Il ritrovo è in piazza San Giovanni, un cuore pulsante e caotico, tra l’ostentazione dei Belli e la confusione dei Brutti. Sovrastati dal “Carlisèp” strano fantoccio, incarnazione del carnevale. Il ribollire della gente si trasforma in corteo con l’arrivo dei due “Sapòr” gli antichi zappatori delle sfilate militare ottocentesche, coloro che avevamo il compito di aprire la strada ai vari reparti militari, un lascito degli eserciti napoleonici in cui la gente di Schignano ha inserito caratteri della proprio tradizione. Tra i loro profili alti e imponenti cammina la figura del “Sicurtà”, la sicurezza o polizia, vestito in foggia militare e con un lungo bastone di comando. Sorveglia il comportamento delle maschere, le conosce e per loro garantisce, può intervenire in caso di eccessi. Perché nel rituale caotico e travolgente gli schignanesi non hanno saputo rinunciare alla sicurezza collettiva. Il carnevale di Schignano è qualcosa di istintivo, non attraversa semplicemente il paese, ma lo permea e lo coinvolge. Quello che vedrete qui non lo troverete altrove, non è qualcosa che si guarda ma qualcosa che si vive. Fino al culmine della notte del Martedì grasso, quando tra frenesia dei Brùt e le lacrime dei Bèi, il Carlisèp viene bruciato tra le fiamme del falò. E’ la fine della baldoria e il ritorno alla normalità. Almeno fino al prossimo carnevale.